Sapori (e profumi) d’estate
Il profumo. La prima cosa che colpiva era il profumo.
Eri in un capannone grande come un campo di calcio, sovrastato dai rumori dei mille banchi in attività e dal vociare della folla multicolore di avventori agguerriti, pronti a procurarsi il meglio della produzione alimentare del giorno al prezzo più conveniente, eppure tu sentivi l’odore dell’oggetto del tuo desiderio gastronomico fin dalla parte opposta del grande mercato coperto.
Eccolo qui, il mercato coperto di Sanremo, la meta fissa dei giovedì mattina estivi della mia famiglia.
Quando ero solo una bambina, e le vacanze estive erano ancora sinonimo di “casa delle vacanze”, di una “villeggiatura” nella casa di famiglia che durava tre mesi e più (allora si tornava a scuola a ottobre…), la nostra casa di Sanremo in estate diventava il nuovo luogo di residenza di una famiglia allargata, convivente in maniera più o meno pacifica, il più delle volte direi piuttosto rassegnata.
Le incombenze familiari non erano prettamente la mia parte preferita del soggiorno, ma il giovedì, si andava a fare la “spesa grossa” al mercato coperto in centro, ed era una spedizione gastronomica a cui non si poteva dire di no.
Sarà da qui che è nata la mia grande passione per i mercati, che mi segue da allora.
In ogni paese che ho visitato nella mia vita, la prima cosa che ho sempre cercato è il mercato, il fulcro della vita e della filosofia di ogni città.
Ma dicevamo profumo…
Tutte le mie visite in quel mercato erano guidate dai profumi. In alcuni casi forse qualcuno avrebbe potuto dire “odori” invece che profumi, in quanto non tutti erano propriamente soavi, ma in realtà ognuno di essi aveva un suo perché che rendeva quel luogo per me così interessante e stimolante.
Tralascio quelli della piazza antistante, un triste inconveniente volto ad ovviare alle esigenze più prosaiche del genere umano, peraltro irrinunciabili.
Di fianco ad una magnifica e antica torre saracena – purtroppo abbandonata a se stessa e all’incuria di ignari passanti e turisti – troneggiava un monumentale orinatoio di epoca fascista, detto anche Vespasiano per gli amici, come quell’illuminato imperatore romano che per primo ebbe l’idea di tassare pubblicamente la pipì.
Forse non aveva ben considerato l’impatto ambientale e olfattivo di detti “monumenti al bisogno pubblico” in piena estate.
Ma tant’è. Forse era lì a ricordarci della crudezza dell’ umana condizione, prima che l’entrata nel fascinoso padiglione ci avvolgesse con gli effluvi dei promessi piaceri gastronomici.
Comunque sia, una volta entrati, se anche non avessi saputo dove mi trovavo e qualcuno mi avesse portato lì bendata, il naso mi confermava inequivocabilmente la presenza del mare: il mercato del pesce in piena attività.
In realtà mi sono sempre chiesta perché si dica “muto come un pesce” quando nel mercato del pesce il livello del frastuono è inusitato. Dalle urla dei venditori a quelle dei clienti (forse per non essere da meno?), condite da rumori non ben precisati dovuti alle preparazioni e allo scarico delle cassette di ghiaccio. Un delirio.
Il profumo però, era quello del mare: se il pesce è buono, ed è fresco, allora profuma di mare, dicono.
Ed è vero.
Comincia a puzzare, secondo proverbio, solo dopo i fatidici tre giorni, insieme all’ospite sgradito. Ma questa è un’altra storia.
Poi si entrava nel cuore del mercato. Al centro del grande capannone troneggiava una distesa di bancarelle di frutta e verdura – tutta meravigliosamente disposta ad arte dagli espositori – un’esplosione di forme e colori che colpiva la vista e l’immaginazione…giallo, rosso, verde, arancio.. tutti i colori delle tavolozza.
Un quadro dell’Arcimboldo che si disfava e ricomponeva ogni giorno ad uso dei visitatori, di cui contadini e venditori erano gli artistici artefici inconsapevoli.
Magnifico alla vista, ma qui il mio naso cominciava a tirare verso i box laterali, dove si alternavano i negozi di genere alimentari più golosi e consistenti.
Il profumo dei salami e dei prosciutti che si protendevano al tuo passaggio come un’offerta difficile da rifiutare, l’effluvio dei banchi di formaggio artigianale, morbidi e burrosi, e poi il tipico aroma della carne arrostita dei girarrosto, con le vetrinette piene di polli roteanti messi lì a dorarsi e a provocare salivazione abbondante negli affamati passanti.
Impossibile resistere.
Ma prima, c’era un’altra cosa da fare.
L’oggetto del mio desiderio di cui accennavo all’inizio – e forse la più seria motivazione per cui accettavo di buon grado quella spedizione settimanale – era dall’altra parte del padiglione, e il mio naso comunque cominciava ad avvertirne la presenza appena entrati.
Era il “rito della focaccia rosa”.
In ogni mercato coperto ci sono panetterie che vendono focaccia, e la Liguria in merito ne fa quasi una religione, ma questa in particolare era qualcosa di mai visto prima.
In un angolino al fondo del padiglione, quasi nascosto, come se fosse lì solo per uno scelto nugolo di scaltri intenditori e non per il grezzo palato del villeggiante medio, c’era una piccola panetteria-forno con una minuscola vetrina.
Qualche formato di pane, e solo un paio di teglie di focaccia, una delle quali, inspiegabilmente farcita con qualcosa dalla curiosa ed inaspettata tonalità rosa confetto.
Cipolle. Rosa.
La prima volta ero rimasta perplessa, ma il profumo era talmente invitante ed avvolgente che il mio palato – avventuroso già allora – non aveva potuto sottrarsi.
La servivano in quadratini al taglio, sempre troppo piccoli per il mio desiderio, soprattutto man mano che negli anni il mio stomaco si faceva più grande.
Il primo morso era conquistato dalla pasta: morbida e fondente, con una piacevole crosticina croccante sotto, leggera e aromatica. Si scioglieva in bocca.
E infine, per unirsi trionfalmente a quell’aroma che aveva guidato il mio naso fino lì, arrivava il sapore della farcitura di cipolle, delicate, profumate, uniche nel loro genere.
Ben presto divenne, come dicevo, un vero e proprio rito. Non si poteva andare al mercato senza prima passare dalla piccola panetteria con la focaccia di cipolle rosa.
Ho provato mille volte a chiedere alla signora al banco quale fosse il segreto di quelle cipolle rosa, ma non ha mai voluto rivelarmelo (per i malpensanti: anche se eravamo in tempi non sospetti, no, non si trattava di coloranti!).
In effetti non si trattava solo di colore, ma anche di sapore.
Dopo alcuni anni la piccola panetteria chiuse, e con essa sparì una parte delle mie estati e della mia infanzia.
Avrò fatto mille focacce da allora, e ogni volta che ne faccio una con le cipolle, inevitabilmente il mio pensiero va a quella.
E’ il mio archetipo. “LA” focaccia con le cipolle per antonomasia.
Nella mia mente, rappresenta il profumo e il sapore di quelle estati.
Le focacce mi riescono piuttosto bene, ma quella – la mia focaccia con le cipolle rosa – non sono mai riuscita a riprodurla.
Forse perché il suo segreto è rimasto congelato nel tempo, fa parte dei ricordi d’infanzia.
Quelli di un tempo che non torna più.
Vi piacerebbe sapere la ricetta di una delle mie focacce?
Ve ne metto qui una in cui di solito uso una guarnizione di cipolle rosse di Tropea caramellate…

La mia focaccia
Ingredienti
- 500 g farina tipo 0 o 1 (potete anche mischiarle)
- 25 g lievito di birra fresco
- 20 g lievito madre (opzionale, serve solo per dare profumo)
- 220 ml acqua (valutate la quantità esatta inserendola gradualmente mentre impastate)
- 50 ml olio
- 20 ml latte
- 10-15 g sale fino
Per le cipolle caramellate
- 2-3 cipolle rosse di Tropea
- aceto di mele
- 1 foglia di alloro
- 1 Cc zucchero di canna grezzo
- sale e pepe
- olive taggiasche snocciolate (facoltative)
Per l'emulsione:
- 50 g olio
- 25 g acqua
Istruzioni
- Setacciate la farina nella ciotola della planetaria. Unite il lievito madre (se lo usate)Sciogliete il lievito di birra in una parte dell'acqua e usatelo per cominciare a impastare. Unite anche il latte e l'olio a filo. Unite la restante acqua gradualmente lasciandola assorbire prima di aggiungerne altra (se l'impasto ne richiede ancora, aggiustate la quantità di conseguenza).Quando l'impasto è formato e sufficientemente elastico, unite anche il sale.
- Mettete l'impasto in una ciotola unta d'olio, coprite con la pellicola e lasciate lievitate per 1,30 – 2 h. o finché non è raddoppiato.
- Nel frattempo, tagliate le cipolle a fettine molto sottili. Stufatele in padella con un filo d'olio, la foglia d'alloro e un pò di acqua fino a che non sono morbide.Sfumate con l'aceto, cospargete con lo zucchero e lasciate evaporare e caramellare. Tenete da parte.
- Una volta lievitato, stendete l'impasto in una teglia e lasciate lievitare ancora per circa 20 minuti.
- Preparare l'emulsione: con un mixer a immersione, miscelare olio e acqua.Stendere l'emulsione sulla focaccia.
- Cospargere le cipolle caramellate sulla focaccia (e le olive taggiasche snocciolate, se le usate) e infornare in forno pre-riscaldato a 165°.Dopo ca. 10 min, portare la temperatura del forno a 230° e cuocere ancora per 5-10 min o fino alla doratura desiderata.
- N.B.: ogni forno è diverso, quindi potreste dover regolare diversamente le temperature. Se le cipolle tendono a bruciare potete aggiungerle dopo la prima fase di cottura, oppure coprire la focaccia con un foglio di alluminio nell'ultima fase di cottura.
Note

Food writer e viaggiatrice appassionata, ha un passato come musicista, giornalista pubblicista e autrice di saggistica, un Master in Marketing e Comunicazione Digitale e un Diploma da Chef. Ama raccontare i cibi del mondo e le tradizioni gastronomiche di ogni paese, per scoprire i popoli e le “persone” che vi si celano dietro e tutta la condivisione e l’“umanità” che c’è nel sedersi a tavola insieme.
Bellissimo questo tuo racconto . Associo spesso gli odori ai ricordi dell’infanzia quindi mi sono identificata molto nella tua narrazione.
Grazie Elsa… questo mi fa davvero piacere!
Salivetto Paola di Torino. È vero i profumi ed i sapori dell’infanzia sono speciali ed indimenticabili. Grazie per la ricetta, la proverò perché sono ghiotta sia di focaccia che di cipolle (ho gusti delicati!). A presto. 🤗
Grazie Paola! Allora poi dimmi come è venuta!!!